26 ottobre 2025: impressioni dal Retro Corchia

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[Avvertenza al lettore: le persone e i luoghi descritti sono assolutamente reali; tuttavia, alcuni
degli eventi narrati, soprattutto riguardo alla loro cronologia e ai soggetti coinvolti, potrebbero non corrispondere totalmente al vero, ma essere frutto fallace di ricordi imprecisi e suggestioni emotive.]


Domenica 26 ottobre, ultima uscita in grotta del corso di speleologia 2025.
Normalmente questo sarebbe uno dei fine settimana migliori dell’anno, dal momento che il
ritorno dell’ora solare consentirebbe un’ora aggiuntiva di sonno; ma no, non c’è riposo per gli
speleologi, e invece del consueto ritrovo alle 8 all’Hitachi di Pistoia, si decide per un
rendez-vous anticipato alle 7. Siamo un gruppo ben nutrito nonostante alcune defezioni
dell’ultimo minuto, 21 tra istruttori, habitué e corsisti: ci dividiamo nelle macchine e partiamo.
La prima tappa è la famosa pasticceria Tonlorenzi a Massa, e la bontà della colazione dà pienamente ragione alla fama che si porta con sé. Si mangia, si ride e si chiacchiera, soprattutto del tempo: le previsioni nei giorni precedenti non hanno promesso niente di buono, ma per il momento le nuvole sembrano volerci usare clemenza. Sosta in bagno obbligatoria, per ridurre al minimo le occasioni di svestizione in grotta, e ci rimettiamo in movimento.
Ci siamo da poco lasciati alle spalle il bar che la strada inizia a farsi più stretta, a salire e a snodarsi in una serie di tornanti secchi: la vista sulle Apuane è uno spettacolo, ed è sempre questo il momento in cui inizio ad avvertire una sensazione che non definirei esattamente ansia, che sarebbe approssimativo, ma piuttosto un prurito interiore che cresce man mano che si avvicina il momento dell’entrata in grotta. Per fortuna che a darmi delle provvidenziali grattatine ci pensano i miei compagni di viaggio: Mig, compagno in tutti i sensi, Emiliano, che ci mostra e nomina tutte le cime che sfilano davanti ai nostri occhi, come un rodato autista di un autobus turistico, e l’Alessia, con aneddoti speleo-geologici raccontati nel suo inconfondibile stile.
Arriviamo finalmente a Passo Croce, paghiamo 4 euro al parchimetro e posteggiamo
la macchina dove la strada crea un comodo slargo. Iniziamo a vestirci: l’avvicinamento non è
breve (si vocifera un’ora), quindi approfittiamo della jeep del Megadirettore Galattico Simone
Rastelli per trasportare caschi e imbraghi almeno per un tratto, seppur breve, e camminare
con maggiore libertà. Il percorso inizia in modo molto piacevole, con il pericolo di pioggia
ormai scongiurato e una via di cava incorniciata da una trama di foglie screziate con tutte le
sfumature dell’autunno; ma tutte le cose belle hanno una fine, il sentiero scompare e, a
questo punto con gli imbraghi addosso, iniziamo ad inerpicarci prima su rocce disconnesse
e dopo su un manto di foglie bagnate e scivolose. Alla fine tutti, in qualche modo (il mio
sicuramente passibile di miglioramenti), arriviamo in cima, al 19° ingresso del Corchia.

Sono circa le 10.30, è il momento di entrare: sfiliamo uno dopo l’altro e iniziamo a scendere lasciandoci scivolare per una breve serie di strettoie, fino ad arrivare in un grande ambiente. Possiamo quindi rimetterci eretti su due piedi e iniziare ad osservare cosa abbiamo intorno, ed è questa una delle sensazioni che non manca mai di stupirmi, ogni volta: abbandonare il mondo conosciuto e luminoso e, attraverso passaggi che non sembrano essere stati creati a misura umana, giungere, in una sorta di catabasi [nel mondo greco, la discesa dell’anima agli inferi, n.d.a.], in un mondo altro, buio e misterioso e che, se non sarà a misura d’uomo, è almeno a misura di speleologo.
Procediamo quindi per Via Fani: Nicola, entrato in testa al gruppo, ha via via lasciato
dei pezzettini di fettuccia come un moderno Pollicino, ad indicarci la direzione. La lunga
cordata inizia a dividersi in gruppi più piccoli, ma la percorrenza procede bene e con
continuità, con tratti a piedi intervallati da alcune brevi calate.
Mentre proseguiamo, il paesaggio intorno a noi inizia a cambiare: stiamo attraversando il Ramo dei conglomerati per entrare poi nelle Gallerie di -250.

Qui gli spazi sono decisamente affascinanti, con zone ampie ma che ci avvolgono nella roccia da ogni lato e altre invece delle quali l’occhio non riesce a percorrere interamente l’estensione, che sfuma e svanisce nell’oscurità. Gli ambienti in questo tratto sono più umidi, c’è addirittura da percorrere un bel traverso su una parete stillante acqua in quantità copiose: cerchiamo di passare il più velocemente possibile per non uscirne zuppi, ma, per quanto ghiacciata, stare sotto questa pioggia è una sensazione piacevole. È in questa atmosfera sognante che alcuni di noi la fine di Pollicino la fanno davvero, e per un breve tratto perdiamo la via, dirigendoci erroneamente verso il nodo dell’OM. Dopo essere scesi su dei lastroni di roccia larghi e lisci, Emiliano e Juri iniziano ad avere dei dubbi sulla direzione; vanno in perlustrazione e ci dicono di aspettare, ritornando poco dopo con sentenza negativa: “dobbiamo tornare indietro”. Poco male, non abbiamo percorso una lunga distanza, se non fosse che affrontare i lastroni di roccia in senso opposto è un po’ meno divertente che scenderli come se fossero uno lungo scivolo al parco giochi: sfruttiamo qualsiasi fessura e appiglio che ci si presenti, almeno io ho l’impressione che ritornare sulla retta via sia molto più lungo e difficoltoso rispetto ad averla persa, poi finalmente sento la voce del Pedri, che ci sta aspettando nel punto in cui era iniziata la nostra sfortunata deviazione e che, come un deus ex machina, vede e suggerisce dove mettere mani e piedi e da dove passare.
La progressione riprende: poco prima di arrivare al Campo Base incontriamo il gruppo di testa, con Nicola, Riccardo, Vania e Diletta, che sta tornando indietro. Un rapido scambio di chiacchiere, un saluto e procediamo verso la famosa tenda di Badino.

È qui che ci ricongiungiamo con il resto del gruppo per rifocillarci e fare una veloce
pausa; c’è anche il tempo di fare delle foto ricordo davanti alla scritta “Dio c’è ma non si
vede” (e alla sua seconda parte più colorita), prima di riprendere la marcia e tornare indietro.

Di nuovo ci frammentiamo inevitabilmente in gruppi più piccoli, le calate si trasformano in brevi risalite e ripercorriamo i nostri passi nella direzione opposta. Incredibile come in alcuni tratti l’impressione sia quella di trovarsi in zone completamente nuove: per quanto percorsi poche ore prima, alcuni ambienti della grotta, ad occhi ancora inesperti come i miei, appaiono diversi, ma questo rende il ritorno ancora più sorprendente.

Abbiamo già percorso un bel tratto della via quando io, Mig ed Emiliano, Pollicini 2.0,
manchiamo la vista di una fettuccia e ci facciamo ingannare da una freccia sormontata da
una U di uscita (e che, se la memoria non mi inganna, indicava l’uscita dal Becco, e non dal
19°). Stavolta non c’è solo l’impressione che le gallerie appaiano diverse rispetto all’andata,
ma che siano effettivamente diverse: di nuovo Emiliano si porta avanti in perlustrazione e di
nuovo dobbiamo tornare indietro. La stanchezza comincia a farsi sentire, ma senza perdere
l’entusiasmo riprendiamo la via giusta e ci ricongiungiamo al resto del gruppo.
Stiamo già percorrendo Via Fani quando, su un tratto in salita, metto un piede su una grossa roccia, all’apparenza stabile, e spingo con forza per tirarmi su, provocandone lo spostamento e il successivo crollo: caccio un urlo in preda al panico, ma per fortuna Mig ed Emiliano sono subito dietro di me e impediscono al masso di procedere nella rovinosa caduta e di fare strike con il resto del gruppo. Riprendiamo a salire, le gambe mi tremano, non so se più per la fatica o per lo spavento, ma l’eccitazione di avvicinarsi all’uscita è un motore più potente; per percorrere l’ultimo tratto di strettoie uso ogni centimetro del corpo (e i lividi contati il giorno successivo saranno un doloroso promemoria) e finalmente inizio a sentire l’aria fresca della sera: sono all’incirca le 19.30 quando vediamo il cielo stellato e siamo di nuovo fuori.
La sensazione è estremamente esaltante, nonostante dobbiamo rifare il percorso
mattutino in senso opposto, stavolta con il buio a rendere il tutto più impegnativo (almeno
per me). Ad ogni modo, il senso di leggerezza che ti pervade dopo nove ore in grotta è
talmente appagante che il ritorno dura un attimo, e in un batter d’occhio ci ritroviamo alle
macchine. È il momento di spogliarsi e cambiarsi: tutto quello che ci togliamo viene gettato
nelle bauliere, un ammasso fangoso e sudato che non si cura di una corretta ottimizzazione
degli spazi, ché la preoccupazione principale in questo momento non è certo l’ordine, bensì
arrivare il prima possibile dalla Daniela.
La cena alla Pollaccia è la perfetta chiusura della giornata: si mangia bene, si mangia
tanto, si ride un sacco, si beve anche (qualcuno in dosi omeopatiche, qualcun altro un po’ di
più), ma soprattutto, malgrado per la stanchezza qualche testa rischi di cadere nel piatto, si
ripercorrono con le parole tutti i passi che abbiamo fatto, le discese ardite e le risalite, e si
pensa già a quali potrebbero essere le prossime uscite. La stanchezza, qui come in grotta,
non può nulla contro l’entusiasmo, e la conversazione allunga i suoi strascichi anche in
macchina, nel viaggio di ritorno fino a Pistoia.
È il momento dei saluti e dei consueti “Oddio, domani è lunedì…”, ma è il pensiero di
un momento, perché, una volta sotto le coperte, dietro alle palpebre chiuse continuano a
scorrere le immagini della giornata, e negli orecchi risuonano le voci di tutte le persone che
sono state i tuoi compagni di avventura: ci si addormenta con gli occhi e il cuore talmente
pieni che il cruccio del lunedì quasi scompare, sommerso da un silenzio palpitante di
emozioni.

Link Utili:

https://www.speleotoscana.it/scheda-catastale/?id=2159

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